(ed. Febbraio 2016 de “La Voce della Vita“)
Una collaborazione importante, che consente di mettere a disposizione delle future mamme occasioni di ascolto e di aiuto concreto, laddove l’attesa di un figlio genera problematiche di natura economica e sociale.
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Questi sono solo i primi ed alcuni titoli che compaiono inserendo la parola “natalità” nel motore di ricerca Google.
E’ evidente, quindi, che il problema dei “bambini che non nascono” è un’amara realtà. Perché, allora, anziché studiare, pianificare e realizzare progetti finalizzati alla promozione e all’incentivazione della vita, ci si accanisce e ci si organizza sempre più per diffondere una cultura di morte e boicottare chi si adopera per la vita nascente?
Quali sono i motivi reali che spingono le donne, le coppie a rinunciare al ruolo di genitori?
Quando su un giornale leggiamo: “Il problema del calo delle nascite in Italia si è rivelato strettamente connesso alla crisi economica, che sta colpendo sempre più violentemente la popolazione”, ci chiediamo: perché lo Stato, i Governanti ma anche molti normali cittadini che però hanno capacità di intendere e volere, non corrono ai ripari e provano a studiare interventi efficaci affinché questo “problema” venga meno e le famiglie crescano? Perché poniamo le nostre attenzioni su questioni che rispetto all’estinzione dell’essere umano, sono sicuramente secondarie?
Le strade possibili per incentivare economicamente la natalità, dal quoziente familiare al potenziamento degli assegni o delle detrazioni per i figli, fino alle misure per agevolare l’accesso ai servizi, sono molte e discusse, purtroppo poco battute.
Ma con una ricerca più attenta tra esperti e studiosi del settore, abbiamo trovato un’intervista realizzata dal settimanale “Panorama” alla Dott.ssa Giovanna Rossi, direttrice del Centro per le Politiche Familiari dell’Università Cattolica:
Perché in Italia non si fanno più bambini?
Le cause del calo della natalità sono sia di ordine culturale che strutturale. Ci sono problemi legati al mercato del lavoro, che richiederebbe misure più flessibili per i genitori (a cominciare dal part-time per le mamme e i congedi parentali) e poi mancano gli aiuti economici a sostegno delle famiglie. Ma non possiamo sottovalutare i motivi di ordine culturale che sono alla base di questo fenomeno e che derivano da uno stato di disaffezione, di sfiducia nei confronti della famiglia. In sostanza, sempre più individui credono che avere una famiglia non sia un vantaggio. Avere un figlio comporta dei cambiamenti di vita impegnativi. Spesso ci si trova in situazioni difficili, si creano legami forti che richiedono molto impegno e se non si ha fiducia nella famiglia, allora decresce anche la volontà a impegnarsi. La nostra è una cultura che sottolinea la centralità dell’individuo, quindi da tante persone la famiglia viene percepita come un vincolo, non come un vantaggio.
Quindi non è solo una questione di sostegno economico, ma qualche aiuto in più gioverebbe o no?
Certamente. A giugno 2012 abbiamo presentato il Piano nazionale di politiche per la famiglia, elaborato con tutti gli altri Paesi europei. Il Piano prevede una serie di interventi espliciti per le famiglie ed evidenzia tre aree urgenti dove è necessario intervenire: le famiglie con minori a carico, le famiglie con disabili e anziani e, infine, le famiglie che vivono situazioni di particolare disagio, come il problema delle tossicodipendenze. Quello che il Piano prevede è una serie di interventi che non sono puramente assistenziali, ma che rendono le persone in grado di essere indipendenti. Purtroppo, però, dal 2012 a oggi il piano è rimasto nel cassetto.
E perché?
Perché non è stato messo in agenda dalla politica, per questo è rimasto nel cassetto. Nessun ministro o dirigente politico ha ritenuto prioritaria la necessità di adottare il Piano”
Quindi, ci sono persone che lavorano per cambiare lo stato drammatico delle cose e burocrati che ne impediscono l’attuazione. Stessa sorte per quelle realtà private, ma di utilità pubblica, nate e create per sostenere e promuovere la vita, come appunto, i Centri di Aiuto alla Vita.
Perché, per esempio, i Centri di Aiuto alla Vita, sono ancora così poco accolti nelle strutture pubbliche, consultori e aziende ospedaliere? La risposta più ovvia e comoda è quella di tipo politico: la tutela della legge 194, ma soprattutto, si sostiene, la tutela della donna.
Ma anche i Centri di Aiuto alla Vita sostengono la donna e la sua salute. E quella del suo bambino.
I CAV vorrebbero solo che la legge 194 (art. 5) si applichi nella sua interezza:
“Il consultorio e la struttura socio–sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall’incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto. […]”
Questo è uno dei compiti dei Centri di Aiuto per la Vita: informare e creare un’alternativa all’aborto. Promuovere attività per la vita e non soluzioni rapide e apparentemente indolore, contro. Offrire la possibilità alle donne di tenere il proprio figlio, laddove le difficoltà sono di tipo economico o anche relazionale.
Teresa Ceni Longoni, presidente del Cav di Abbiategrasso-Magenta (e componente del direttivo di Federvita Lombardia), richiama le ragioni profonde dell’impegno in favore della vita («quelle per cui i Cav sono nati nel 1975») per ripetere che occorrono non solo dedizione e fatica, ma anche professionalità e competenza: «La nostra è una battaglia di civiltà, non confessionale. Testimoniamo che è possibile prevenire l’aborto con percorsi alternativi: questa è la missione per cui i Centri di aiuto alla vita sono nati e che vogliamo ribadire a stretto contatto con il servizio pubblico. Da questo deriva la scelta privilegiata di essere presenti in ospedale, cioè là dove gli aborti vengono fatti. E il problema principale – sottolinea Teresa Ceni – non sono i soldi. Certamente servono, ma di fronte alla donna che non sa se tenere il figlio, conta di più il percorso di accettazione interiore che riusciamo a farle maturare».
Grazie a queste realtà e a queste pacifiche battaglie, qualcosa, molto lentamente e con grandi diffidenze da parte dei paladini dell’aborto, sta cambiando. Ed ecco, per esempio che in Lombardia (una delle Regioni più attive e organizzate per la Vita nascente) attraverso una delibera regionale nel settembre del 2010, si propone il “riconoscimento, la valorizzazione e il sostegno del ruolo della famiglia quale nucleo fondamentale per la crescita, lo sviluppo e la cura della persona”. Con gli art. 4 e 5 si attribuisce alle unità di offerta (cioè ai consultori pubblici e privati accreditati) la funzione di aiutare e sostenere la famiglia, con particolare riferimento alle problematiche relazionali e genitoriali. Si vuole “prevenire” l’interruzione della gravidanza, anche mediante l’attivazione di legami di solidarietà tra famiglie e gruppi sociali, e con azioni di sostegno economico. La delibera stabilisce che il personale del consultorio debba informare la donna della possibilità di non abortire in cambio di un aiuto economico: la somma di 4.500 euro è erogata attraverso un sostegno mensile di 250 euro, per un massimo di 18 mesi, ed è suddivisa tra il periodo precedente il parto e il periodo successivo alla nascita del bambino. La clausola, per la donna, è di partecipare ad un progetto concordato con il Centro di aiuto alla vita della sua zona.
Stefania De Angelis