Articolo pubblicato su “La Voce della Vita” Ed. Marzo 2016
Dal greco: eu (bene, particella che indica un valore positivo) + thanatos (morte).
Una buona morte. La Treccani ci spiega: “Nel pensiero filosofico antico, la morte bella, tranquilla e naturale, accettata con spirito sereno e intesa come il perfetto compimento della vita.” Per gli antichi una buona morte avviene quando la vita è ormai compiuta, ha dato tutto, è conclusa, non ha più frutti da produrre.
Il termine tuttavia è affiancato da molte altre definizioni, ognuna delle quali assume delle sfumature diverse e non indifferenti, sia in ambito giuridico che morale.
Partiamo dalle più semplici e ovvie: buona morte, o bella morte (sinonimi di eutanasia). Si distinguono solamente per quattro lettere, ma si badi bene alle differenze semantiche. Una morte “buona” infatti non sempre è contrapposta ad una morte cattiva, ma spesso alla vita, vista negativamente. In questa prospettiva, la morte diviene un valore, un giovamento, rispetto alla vita che è vista come maligna, che provoca uno svantaggio all’individuo nell’ essere vissuta. Sottolineiamo: la morte è un vantaggio per l’individuo.
Così una morte “bella” è contrapposta ad una vita “brutta”. Ecco, già a distinguere il bello dal brutto io francamente trovo più fatica. Bello è ciò che si confà ai nostri gusti. Bello è ciò che sta a posto, che si abbina all’ ambiente che lo circonda, e non stona. Bello è ciò che deve essere così come deve essere. Una vita brutta è una vita come non deve essere. Una vita non degna di essere considerata tale. Una vita indegna. Questo aspetto, a mio modo di vedere, pone facilmente adito a degenerazioni. Lasciatemi lanciare queste provocazioni: è “bello” un bimbo down? E un uomo depresso? E la vecchiaia? Orribili! Quali frutti possono dare? Nessuno. E allora, diritto all’aborto se ai genitori non piace il bimbo! E ancora, diritto all’eutanasia se ad un uomo non piace la propria vita! (provocazioni piuttosto verosimili, se è vero che in Olanda su queste basi si è di fatto regolamentato il suicidio, ormai lecito e concesso per legge. (Cfr. Paradisi, Eutanasia in Olanda, pag.6 di questo numero).
La generica eutanasia in realtà assume varie forme: attiva, se il paziente è indotto alla morte da farmaci appositamente iniettati dal medico somministrante. Passiva, invece, se si sceglie di porre fine ad un trattamento necessario alla sopravvivenza dell’individuo (es. respirazione artificiale). Anche qui vediamo come spesso si faccia un brodo di eventi che di simile hanno il risultato, ma non le premesse. Il famoso “accanimento terapeutico”, uno dei termini più usato dai sostenitori dell’eutanasia, può esser incluso nell’eutanasia passiva, ma è assolutamente da scartare nell’attiva. Se nella prima l’intervento umano continua a far sopravvivere un corpo che altrimenti morrebbe, nella seconda si pone fine ad una vita che, almeno nell’immediato, non ha ancora compiuto il suo corso. Manca ancora un qualcosa a quel corpo per essere definito “potenzialmente morto”. Non si tratta di morale o giustizia, ma solo di fare chiarezza.
Non bisogna confondere queste forme con il suicidio assistito, dove il paziente ingerisce i farmaci letali, autonomamente, senza aiuto di terzi. Un suicidio, nulla più nulla meno. Il medico può al massimo prescrivere il farmaco. Diversamente nell’eutanasia il paziente è portato alla morte da qualcun altro, in quanto impossibilitato a farlo di persona. Ultimo ma non ultimo, non si può tralasciare la famigerata eutanasia involontaria: eutanasia senza il consenso del paziente. Ora, sorge spontanea una domanda: il vantaggio che avevamo nominato, parlando della buona morte, a chi viene? Non certo al paziente, che non essendo consenziente, bene che vada è incapace di intendere e di volare. Dunque? L’unica beneficiaria è la società. Inteso, quelli che rimangono in vita. Non è indifferente il guadagno economico che ne può derivare. Possiamo notare come qui il termine sia stato deformato. Non porta più un giovamento all’individuo, quanto alla collettività. L’albero che non porta frutti va tagliato. La persona, in questa concezione, non è un VALORE, bensì una RISORSA. Rinnovabile, s’intende. Di questo passo, si rischia di passare dal “diritto alla morte” al “dovere alla morte”. Per il bene di una società dove, in nome di una libertà indefinita ed aeriforme, l’individuo si trasforma da fine a mezzo, spesso addirittura peso, di cui disfarsi. Per il suo bene.
Luca Bevagna