(Ed. Dicembre 2015 “La Voce della Vita”)
Continuiamo il nostro approfondimento sulla pena di morte nel mondo. Analizziamo il caso della Cina, dove i numeri sono tristemente impressionanti.
Non si può trattare della pena di morte senza parlare della Cina. Il Paese più popolato su questo pianeta e con una delle economie più in crescita (agli attuali ritmi, è destinata a diventare la prima economia mondiale), che ha inondato i mercati europei – in modo legale e non – di suoi prodotti e che è stato per lunghi anni polo d’attrazione per diverse aziende grazie (o meglio, a causa) del basso costo della manodopera locale. Il Paese ha però al suo interno enormi squilibri sociali, ampie limitazioni delle libertà fondamentali e, di conseguenza, un sistema giuridico/penale rigido.
La lista dei reati che possono portare alla pena capitale è divisa in varie macro aree: crimini contro la sicurezza nazionale; crimini contro la pubblica sicurezza; crimini economici; crimini contro la persona; crimini contro la proprietà; crimini contro l’ordine pubblico; crimini contro la difesa nazionale; reati militari. All’interno di queste categorie troviamo (solo per citarne alcuni): tradimento, separatismo, ribellione armata, spionaggio, diffusione di veleni, sabotaggio, possesso illegale di armi, dirottamento, produzione di medicine contraffatte, omicidio, rapimento, stupro, rapina, evasione. Non facciamoci ingannare però: in Cina anche partecipare a una manifestazione pacifica può essere considerato tradimento o separatismo.
L’imputato è portato davanti all’Intermedia Corte del Popolo, se questa decide di comminare la pena di morte si avvia un doppio appello. Il primo è tenuto presso l’Alta Corte del Popolo e il secondo contemporaneamente presso la Corte Suprema della Repubblica Popolare Cinese. La procedura del doppio appello è stata avviata nel 2007, con l’intento di minimizzare il rischio di una condanna a morte di un innocente. Solo dal 2012 è richiesto alla Corte Suprema di ascoltare la versione dei fatti dell’imputato e di interrogarlo. In caso di conferma della sentenza, l’esecuzione del condannato avviene pochi giorni dopo. Il protocollo è disciplinato dall’articolo 212 della Legge di Procedura Criminale, che prevede la notifica della condanna a morte e della data dell’esecuzione alla Procura di competenza. La pena deve essere eseguita tramite fucilazione o iniezione letale, presso apposite strutture o poligoni. Il personale del settore giudiziario deve essere presente all’esecuzione e accertarsi dell’identità del condannato. In caso si riscontrino problemi, l’esecuzione deve essere sospesa e un rapporto inviato alla Corte Suprema. Diversamente da altri casi, come l’Arabia Saudita, le esecuzioni non avvengono in pubblico. In alcune regioni della Cina non esistono poligoni per le esecuzioni, perciò ne vengono preparati alcuni temporanei da apposite squadre; successivamente viene impedito l’accesso al pubblico a un’area di 2 chilometri di raggio dal punto prescelto. L’iniezione letale è stata introdotta dal 1996 e fino al 2010 era utilizzata soprattutto per crimini economici, mentre la fucilazione era il metodo principale per gli altri tipi di reato. Dal 2010, la Cina ha stabilito l’iniezione letale come metodo principale per eseguire le sentenze capitali.
La propaganda del Governo cinese fa sì che la maggioranza della popolazione sia favorevole al mantenimento della pena di morte. Secondo la Fondazione Dui Hua, 12.000 persone sono state giustiziate nel 2002, 6.500 nel 2007 e 5.000 nel 2008, nel 2009 e nel 2010. Le esecuzioni sembrano essere calate nel 2013 e 2014 con circa 2.400 persone giustiziate all’anno. Sono numeri impressionanti e, soprattutto, incerti in quanto non esistono cifre ufficiali e spesso le stime fatte dalle organizzazioni non governative attive nel combattere la pena di morte sono calcolate al ribasso.
Emiliano Battisti