SOS VITA: quando la difesa della Vita parte da una semplice telefonata

(ed. Dicembre 2015 “La Voce della Vita”)

SOS Vita è un servizio telefonico offerto dal Movimento per la Vita, attraverso i Centri di Aiuto (circa 260)

localizzati in tutto il Paese. Questo numero – 800 813 000 numero verde gratuito – è attivo 24 ore su 24, sette giorni su sette e offre a chi vi si rivolge ascolto, condivisione, sostegno psicologico, consulenze mediche, legali e sociali a titolo gratuito (attraverso professionisti volontari), sostegno post-aborto. Il contatto con SOS Vita mette in moto tutta una serie di aiuti atti a non lasciare solo e nella disperazione chi vuole scegliere la vita ma si sente abbandonato e combattuto. Non solo la donna, direttamente interessata, ma anche chiunque si trovi a contatto con una situazione in cui una gravidanza sta per essere interrotta: un uomo – non importa se sposato o no – che vorrebbe non perdere il proprio figlio; chiunque voglia aiutare una parente, un’amica, una vicina che vuole abortire, anche se ha già in mano il certificato di Ivg. All’ascolto e all’aiuto dei volontari SOS vita, tutte persone di provata maturità e capacità, fortemente motivate e dotate di una consolidata esperienza di lavoro nei Centri di aiuto alla vita (CAV), si rivolgono anche donne che hanno già subito il trauma dell’aborto. La prima telefonata a SOS vita è arrivata il 28 dicembre del 1992. Da allora non si sono più fermate. Le telefonate arrivano da tutta Italia.

Sono storie di solitudine, di timore per una gravidanza inattesa, di difficoltà per i figli già nati o per i bambini affidati e in adozione, di sofferenze psicologiche e morali per aborti fatti, risalenti anche ad otto o dieci anni fa. Si è rivelato necessario prestare anche un servizio on-line, denominato Telefono Rosso, dato il ricorso sempre maggiore dei giovani a questo sistema di comunicazione.

Giacomo Paradisi

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Passato e futuro del volontariato in Italia

(ed. Dicembre 2015 “La Voce della Vita”)

È il 22 maggio del 1975. A Firenze nasce il primo Centro di Aiuto alla Vita (CAV) con lo scopo di ridurre il fenomeno dell’aborto, all’epoca illegale ed effettuato in clandestinità, e di concretizzare le linee guida della Chiesa in materia di vita, espresse nell’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI.

Nel 1980 nasce il Movimento per la Vita, in risposta alla nuova legge sull’aborto che legalizzava “l’interruzione della gravidanza” in casi specifici. Per queste associazioni che operano sul piano sociale e politico prioritario è il concetto di vita, intesa sin dalla fase embrionale, in cui l’individuo possiede già, in virtù del suo corredo genetico, unicità e dignità. Questa visione non è a oggi da tutti condivisa, venendo spesso definita anacronistica, esagerata, talvolta oscurantista.

La vita ai giorni nostri non ha una definizione oggettiva, essa è sottoposta all’opinione. A difesa di una vita insindacabile e inviolabile sono scesi in campo i movimenti sopra citati, fiancheggiati costantemente dalla Chiesa. Il volontariato per la vita ha da sempre, inevitabilmente, un legame stretto con il mondo cattolico. Nonostante il volontariato in generale non sia una realtà puramente di natura confessionale, è evidente che la difesa della vita nelle sue molteplici fasi è prerogativa esclusiva di movimenti cattolici.

La battaglia culturale si completa con quella legislativa, già portata avanti dal Movimento per la Vita opponendosi alla liberalizzazione progressiva dell’aborto e proponendo una maggiore tutela della maternità. La situazione però risulta seriamente preoccupante dal punto di vista sia culturale ma anche più concretamente da quello politico.

In occasione del 35° convegno CAV si è affrontato proprio questo tema, il volontariato per la vita tra passato e futuro. La situazione in prospettiva non è idilliaca: nel 2014 sette case di accoglienza collegate al Movimento per la Vita sono state chiuse per mancanza di sostegno da parte del governo, giacché molte regioni non riconoscono il volontariato che è così costretto ad aumentare i costi per il proprio operato.

Il Presidente del Movimento per la Vita Gian Luigi Gigli ha dichiarato: “Chiediamo alle istituzioni l’identificazione di fondi specifici per la tutela della maternità e una legge che consenta al personale volontario in possesso di determinati titoli e requisiti di poter essere considerato ai fini dell’accreditamento e delle convenzioni”.

La strada per la vita sembra in salita, minacciata dalla cultura dominante e dalla politica stessa, che dovrebbe invece riconoscerne l’importante ruolo sociale. Ma in fondo la natura del volontariato è proprio questa: rispondere a una chiamata alla quale molti sono sordi, e ritrovarsi, il più delle volte, in pochi contro tanti.

Mattia Patriarca

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Sindrome post aborto

(ed. Dicembre 2015 “La Voce della Vita”)

«L’aborto recide un legame profondo e ancestrale, quello della donna con la vita. La donna sa di essere “grembo della vita”, e quando scopre la gravidanza è già madre». Claudia Navarini (docente della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum)

Questa sindrome, da non molto riconosciuta come tale, specie in Italia, colpisce sia le donne che hanno abortito sia quelli che sono sopravvissuti a un aborto. Esistono associazioni di sopravvissuti, estese anche ai gemelli di abortiti (ossia coloro che sanno di essere stati concepiti assieme ad un altro, poi soppresso) e fratelli (ossia coloro che sanno che la loro madre ha abortito un loro fratello, prima o dopo di loro). Con conseguenze psico-fisiche anche gravi: forti sensi di colpa, risentimento e sentimenti di ostilità e odio nei confronti di colore che hanno contribuito alla scelta dell’aborto, ansia, angoscia, tristezza, senso di vuoto, forme di autolesionismo, ricorso all’alcool o a droghe, disordini alimentari, drastica perdita di autostima. Fino a giungere al più estremo degli effetti: l’istinto suicida. Tutto questo, contrariamente a quanto recita la nostra legge riguardo il diritto all’aborto, mette in dubbio lo scopo principe della legge, ovvero la salvaguardia della salute mentale delle donne. La Sindrome Post Aborto (PAS) è un fantasma che campeggia negli spazi della sofferenza, del tabù della morte, della bara toccata quotidianamente, di una bara che non si vede ma che è dentro alle persone coinvolte in uno o più aborti volontari o anche spontanei. E’ una realtà che ha mille sfumature e tocca altrettante emozioni. Per questo è di fondamentale importanza essere compagni di cammino anche in questa fase. Anche se si è scelta la strada della morte. E’ importante non essere lasciati soli. Difficilmente di fronte ad un bimbo abortito le persone coinvolte sentono che questo bimbo non fosse niente , è andato in niente, nel nulla, è sparito e quindi inevitabilmente pensano che sia da qualche parte, nel Cielo, nel luogo nascosto per eccellenza non necessariamente in senso cattolico apostolico romano. E’ quindi necessario continuare a dare speranza, a dare ascolto. È una ferita profonda del non amare e non sentirsi amati e quando questo verme intacca profondamente le relazioni intrapsichiche e verso l’esterno continua a produrre divisioni, separazioni, malessere sia nella vita personale che nella vita di relazioni come un vortice che trascina verso la morte, la distruzione, il senso di colpa, l’inquietudine. Quel bimbo abortito se non riconosciuto come volto umano del concepito, di quel figlio, con quello che gli è stato fatto, continua ad essere un bambino fantasma, un bambino persecutorio, un malessere magari non riconosciuto subito di una assenza-presente ma che si riverbera nella vita di tutti i giorni e a lungo. L’unico modo per accennare una modesta comprensione di tale patologia è apprendere l’esperienza da una diretta interessata.

“Giulia ha solo 27 anni, ma alle spalle della sua breve vita ha già due aborti volontari, effettuati a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro, il primo a 17 ed il secondo a 18 anni, ed una depressione scatenata da queste scelte che le ha minato progressivamente le relazioni interpersonali, il lavoro ed il corpo fino a portarla, più volte, sull’orlo del suicidio.

È stato per anni pieno di brufoli il bel viso di Giulia: come quello di un adolescente anche quando adolescente non lo era più. I suoi capelli neri e lucidi si erano diradati innaturalmente. La sua mente faceva  irrigidire il corpo quando si trattava di accettare baci ed abbracci. E un bel giorno persino le sue braccia avevano pensato di tradirla rifiutandosi di funzionare anche per gesti semplici come fare il caffè.

Non si affrettino i ben pensanti ad attribuire una sindrome post aborto così profonda alla morale ecclesiale, perché all’epoca Giulia non frequentava la Chiesa. Ed era così lontana dal pensare che una cosa legale come l’aborto potesse avere effetti tanto devastanti nel vissuto di una donna che ci ha messo anni a capire che l’origine del suo male oscuro era proprio lì, in quel “grumo di cellule”, come le ripeteva chi aveva vicino, che per alcuni mesi le erano cresciute in grembo e che ad un certo punto, senza avere piena coscienza di quanto si accingeva a fare, ha acconsentito a far strappare da sé.

Oggi sta bene, e i suoi occhi sono tornati a brillare di quella solarità connaturale al suo carattere semplice e dolce. Ma perché le cose potessero andare a posto c’è stato bisogno di un lungo lavoro. Non per dimenticare e liberarsi di ingiustificati sensi di colpa: la ricetta dei politicamente corretti. Ma per ammettere la gravità del gesto commesso, elaborarlo e rendersi conto che ad essere sbagliata non era lei, ma la scelta fatta. Una scelta avventata per impedire la quale praticamente nessuno allora intervenne, strutture pubbliche comprese (forse per non influenzare l’esercizio della “libertà”? Per routine?), e che se fosse stata informata, emotivamente non così sotto pressione, sostenuta psicologicamente, indirizzata a strutture di supporto, se avesse saputo che il bambino si poteva lasciare anonimamente in Ospedale, se, se, se, “non avrei probabilmente fatto”, dice. Tempi stretti e anche una innegabile superficialità da parte di diversi operatori incontrati nel cammino, l’hanno portata così dritta a quella che considera “l’azione più grave che potessi fare nella mia vita”. Per Giulia è ancora oggi doloroso ricordare il Calvario di cui ella stessa è stata l’artefice, ma accetta di raccontare anche ad un giornale per “infrangere l’assurdo silenzio che attornia il dolore delle donne che hanno effettuato un’interruzione volontaria di gravidanza – spiega – e che la solitudine rende ancora più profondo. Le mamme, gli operatori devono sapere cosa vuole dire abortire, e se la mia testimonianza può servire ad impedire altri drammi non mi tiro certo indietro”. Tanto più che il vissuto di Giulia non è né più grave né molto diverso da quello di tante altre donne. Ed eccola la storia di questa ragazza, dura e a tratti quasi incredibile per la distanza tra quanto si afferma verbalmente e ciò che in realtà accade nell’iter delle donne verso l’aborto e nel cuore di chi si decide di esercitare questo “diritto” conquista della modernità. “La prima volta che sono rimasta incinta avevo 17 anni – racconta – stavo con un ragazzo che in verità ero in procinto di lasciare perché violento. Non mi sono accorta subito del mio stato, perché non avevo il ciclo regolare ed era per me normale saltare un mese. Del resto non avevo notato nulla di particolare se non che mangiavo solo patate perché non mi andava altro. Poi un giorno vomitai violentemente per un odore intenso. Solo allora mi venne il dubbio e con immensa vergogna andai in farmacia a chiedere il test di gravidanza. Subito mi orientai verso l’aborto: perché ero molto giovane, non volevo che quel ragazzo fosse il padre dei miei figli e pensavo che una cosa legale non potesse essere sbagliata”. Quindi l’incontro con operatore del Consultorio che, responsabilmente, volle che Giulia, allora minorenne, parlasse prima coi suoi genitori (nonostante per la legge non sia indispensabile). “Mia madre fu subito d’accordo mentre ci volle di più per convincere mio padre. I tempi erano tuttavia stretti perché ero già allo scadere del terzo mese, il limite posto dalla legge italiana per l’aborto. In Consultorio, allora, mi fissarono d’urgenza l’appuntamento in Ospedale”. Nessuno psicologo né incontrato né proposto; nessuna delucidazione pratica sull’intervento; nessuno che le abbia citato l’esistenza del Centro di aiuto alla vita. Tempo trascorso tra la scoperta della  gravidanza e l’intervento: 3 – 4 giorni. Una bomba emotiva. Quindi l’arrivo in Ospedale: era la mattina dell’11 settembre 2001: “Lo stesso momento in cui a New York cadevano le Torri Gemelle – evidenzia Giulia – Una singolare coincidenza che ha reso ancora più drammatico il ricordo di quel giorno”. Che peraltro non ha poi mai potuto fare a meno di vivere come anniversario, come nel caso della Pasqua per il secondo aborto, con tutto il dramma legato al rinnovo periodico del dolore. “In Ospedale parlai prima con una donna che penso fosse un medico – ricorda ancora provata – Mi trattava sgarbatamente, forse perché pensava che stessi per fare una cosa orrenda. Ma, mi chiedo oggi, perché non me lo disse e non fece nulla per impedirmelo? Io ero spaventatissima e confusa per l’intrecciarsi di paura ed emozione, anche perché sentivo di essermi già affezionata alla creaturina che cresceva dentro di me. Ebbi solo la forza di chiedere cosa mi avrebbero fatto durante l’operazione, ma ricevetti solo una risposta superficiale in tono sbrigativo, quasi mi stessi impicciando di ciò che non mi competeva. Ho appreso solo qualche mese fa, guardando su Internet, come si effettua un aborto nel primo trimestre, ovvero dell’aspirazione a pezzi del feto. Dei momenti successivi ho rimosso tutto. Mi  hanno solo detto che non ho fatto altro che piangere. Nelle settimane a seguire, tuttavia, non notai nulla di cambiato in me”. Un dato in verità non strano, in quanto la sindrome post aborto matura non nel breve ma nel lungo periodo. “Pochi mesi dopo rimasi ancora incinta, di un altro ragazzo – prosegue il racconto – Mi accorsi ancora tardi del mio stato, perché avevo avuto comunque una sorta di ciclo”. Ed ecco la nuova avventura al Consultorio.
“Mi fissarono  l’appuntamento a ora di pranzo, ma quando andai la dottoressa mi disse che era un brutto momento e che avremmo dovuto fare presto perché doveva uscire per la pausa. Mi toccò la pancia e mi disse che effettivamente ero incinta. Quindi mi indirizzò ad una clinica convenzionata per gli esami in vista dell’aborto. Nessuna ecografia, nessuno psicologo, nessun tentativo di dissuadermi”. Poi l’incredibile: “Al Consultorio non mi fecero fretta perché senza ecografia non mi avevano detto di quale mese ero. Quando arrivai in clinica ebbi dunque la sorpresa di sapere che mi trovavo al quarto mese e che non potevo più abortire. Mi misi a piangere e il medico mi disse che c’era comunque una soluzione: si poteva andare in Nord Europa dove gli aborti si praticano a pagamento fino al quinto mese, e che avrebbero provveduto a tutto loro. Viaggio aereo e alloggio compreso…il tutto a meno di un migliaio di euro. Avevo un’ora di tempo per decidere. Andai in cortile da sola e piansi ininterrottamente. Poi scelsi di procedere. Anche in questo caso nessun percorso alternativo suggerito dagli operatori e nessuna spiegazione sul metodo dell’aborto che, nel secondo trimestre, è un parto prematuro pilotato che per me fu in anestesia totale”. “Nella clinica estera nessuno parlava la mia lingua e si comunicava per gesti – ricorda ancora carica di dolore Giulia – Quando tornai ero così provata  che mi erano cadute ciocche intere di capelli”. Mese dopo mese, poi l’arrivo della depressione, con incubi, progressiva chiusura in sé stessa, pianti continui. “Colori, odori, voci, c’erano mille cose che vivevo con ansia e dolore – dice – Poi ho capito che mi rimandavano agli aborti, e sono arrivata a collegare, anche per i sogni ricorrenti, che tutto il mio male derivava di lì. Comparirono anche pensieri terribili come: ‘ho ucciso e ora devo morire io’”. Poi il lieto fine, con la scelta di aprirsi ad un sacerdote e, poi, l’approdo ad una psicoterapia per sindrome post aborto: “Mi hanno fatto dare un nome a quei piccoli di cui sono stata anche se per poco madre. Non li ho mai visti ma sento che il primo era una femminuccia e il secondo un maschietto. Passo dopo passo ho imparato a convivere con il dolore senza che questo mi schiacciasse. Solo ammettere la gravità di quanto accaduto mi ha dato pace e ha riaperto i rapporti che prima rifuggivo, anche nei confronti dei bambini”. E conclude: “Non si può mascherare la realtà dell’aborto sostenendo che un bimbo nel grembo di una donna non è nessuno e che quindi si può liberamente buttare. Una mamma sa d’istinto che non è così, e non c’è ideologia che possa nascondere questa verità che emerge dal profondo dell’anima da ogni parte, come un fiume in piena, al di là della propria formazione e dei propri pensieri”.

Se si vive una gravidanza non attesa o indesiderata non si è soli. In tutte le città ci sono persone, realtà che possono aiutare concretamente, a seconda della situazione che si vive, nell’accompagnare questa mamma, questo bimbo, questa famiglia. Certo magari, come in molte cose della vita, non sarà tutto facile , sarà sicuramente meno difficile. Quando nel dolore si hanno compagni che lo condividono l’animo può superare molte sofferenze. E se questo comporta la gioia di vedere un bimbo tra le braccia di una mamma, una gioia per questa famiglia è un seme di speranza per il nostro futuro. Penso che questo coraggio di dire sì alla vita sia una speranza per tutti piuttosto che rimanere con la ferita di un bimbo ucciso dentro il proprio corpo, la propria psiche, la propria spiritualità che di conseguenza impoverisce tutti noi.

(Fonte: Cinzia Baccaglini, psicologa e psicoterapeuta con una particolare competenza ed esperienza nell’ambito della sofferenza post-abortiva)

Nel corso del XXVII convegno dei Centri di aiuto alla vita, è stato dato l’annuncio della creazione di un nuovo servizio del Movimento per la vita rivolto alle moltissime donne colpite dalla sindrome post aborto. «Il servizio» spiega Lucio Romano, vicepresidente del Movimento per la vita «si prefigge, almeno nella prima fase un duplice obbiettivo: da un lato incentivare la ricerca su questa sindrome finora quasi sconosciuta agli ambienti medici italiani ma all’estero da tempo approfonditamente studiata, dall’altro formare e sostenere gli operatori dei Centri di aiuto alla vita che quotidianamente incontrano donne cadute in depressione a seguito di un aborto anche remoto». «Il nuovo servizio lavorerà a supporto ed in stretta collaborazione con i trecento Cav sparsi in tutta Italia e con SosVita, la linea verde (800-813000) che da dieci anni raccoglie i problemi e le sofferenze di migliaia di donne alle prese con una gravidanza indesiderata o con un aborto pregresso. Ma non è escluso che in una seconda fase si possa aprire un centro di risposta diretta alle donne» (Fonte: Web-Movimento per la Vita)

Stefana De Angelis

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“Storie d’amore immenso”: Il CAV in rete davanti alle sfide del futuro

(ed. Dicembre 2015 “La Voce della Vita”)

Il 35° convegno Nazionale dei Centri di Aiuto alla Vita, dal titolo “Storie di amore 12190959_458235521028154_6483941352272274164_nimmenso. Il Cav in rete davanti alle sfide del futuro”, organizzato dal Movimento per la Vita Italiano, si è svolto dal 6 all’8 Novembre a Roma.

Cari fratelli e sorelle del Movimento per la Vita! Siete venuti a Roma da ogni parte dell’Italia per partecipare al vostro convegno nazionale e rinnovare ancora una volta l’impegno di difendere e promuovere la vita umana”: queste le parole di Papa Francesco con cui si è aperto il convegno, un invito agli operatori Cav a proseguire la loro missione continuando a essere “buoni samaritani”.

L’udienza è continuata con l’intervento del Presidente del Movimento per la vita Italiano, Gian Luigi Gigli, il quale ha dichiarato: “Vorremmo che questo convegno suscitasse una consapevolezza maggiore dell’imponente attività dei nostri Cav (Centri di aiuto alla vita) a favore delle madri, dei nascituri e di ogni vita minacciata”. Gigli ha posto l’attenzione sulla promozione della cultura della vita attraverso la testimonianza in una società “utilitarista e anestetizzata”.

Numerose sono state le tematiche affrontate durante il convegno, come ad esempio le nuove prospettive per la rete del volontariato prolife, la presentazione delle strategie europee per il progetto “Uno di noi”, le verità spesso taciute dai media sulla natura della pillola del giorno dopo.

Nella giornata di sabato 7 novembre sono stati presentati tre casi affrontati nei Cav: uno di questi gestito grazie al neo progetto SOS VITA, ossia un telefono “salva-vite” per prendersi cura delle mamme in difficoltà e, con loro, della vita del figlio che portano in grembo.

Quindi è stato elaborato il nuovo piano di comunicazione del Movimento per la Vita. Il progetto, proposto da SpazioUau, include la creazione di un logo che mantenga lo stesso colore e disegno, in una versione aggiornata ma più morbida. La grafica e l’organizzazione del sito sono state curate per rendere più efficace il servizio online che registra un aumento maggiore degli utenti.

Nel pomeriggio di sabato i vari temi sono stati trattati in percorsi pratici in parallelo, tenuti da vari professori, dottori, giornalisti ed esponenti del MPV. I temi elaborati sono attinenti alle realtà che i CAV si trovano quotidianamente ad affrontare, sia da un punto di vista organizzativo, contabile e progettuale, sia formativo per i nuovi volontari.

Infine è stato presentato il nuovo progetto MOVIT: una realtà associativa in ambiente universitario volta alla promozione della cultura della vita e all’approfondimento scientifico dei tema ad essa collegata.

Il convegno si è concluso domenica 8 Novembre con la Messa e con la presentazione del 3° Congresso Europeo dei Centri di Aiuto alla Vita e del 36° Convegno dei Centri di Aiuto alla Vita.

L’affluenza è stata importante. Erano presenti delegazioni dei Centri di Aiuto alla Vita di tutta Italia. Questi eventi sono vitali per il Movimento per la Vita oltre che per gli stessi volontari: momenti di confronto e di condivisione sono fondamentali per un buon coordinamento prolife. Uniti per la vita.

Ilaria Paciullo

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Fecondazione assistita: sì alla selezione degli embrioni. Gigli: «avanza cultura dello scarto»

(ed. Dicembre 2015 “La Voce della Vita”)

La Corte Costituzionale con la sentenza n. 229/2015 torna a giudicare la L.40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita (PMA). È stato dichiarato incostituzionale l’art. 13, comma 3, lett. B della suddetta legge nella parte in cui vietava la condotta selettiva del sanitario volta esclusivamente ad evitare il trasferimento nell’utero della donna di embrioni che, dalla diagnosi preimpianto, siano risultati affetti da malattie genetiche trasmissibili accertate dalle strutture pubbliche. In altre parole, con tale declaratoria di incostituzionalità la Consulta ha eliminato il divieto di selezione degli embrioni cancellando la relativa sanzione penale originariamente prevista. Questa decisione apre, seppur indirettamente, a una forma di eugenetica indiretta, una pratica disumana oltre che completamente ingiusta e antigiuridica.

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Forte e immediata è stata la reazione del Presidente del Movimento per la Vita, Gian Luigi Gigli, che in una nota ufficiale dichiara: «la “cultura dello scarto” compie un altro passo avanti in Italia. Inserendo definitivamente i principi dell’eugenetica nell’ordinamento italiano, sarà dunque possibile eliminare gli embrioni portatori di malattie genetiche. L’embrione – sottolinea – è ormai ridotto a un bene di consumo, da usare e gettare se difettoso. Il prossimo passo sarà la produzione di esseri umani allo stadio embrionale per la riparazione di soggetti adulti malati, non identificati sufficientemente in tempo per non farli nascere. A prevalere sono ancora una volta logiche di discriminazione a vantaggio del più forte lungo un pendio scivoloso per la tenuta stessa delle istituzioni democratiche».

IL CASO. – Il Tribunale di Napoli nell’aprile del 2014 ha sollevato il vizio di legittimità costituzionale nel procedimento penale in cui erano parti alcuni medici che avevano creato embrioni per finalità diverse da quelle previste dalla legge. Il Giudice ha proposto alla Consulta due questioni: la prima attinente all’art. 13, commi 3, lett. b, e 4, la seconda riguardo all’art. 14, commi 1 e 6 della L.40/2004.

Per quanto riguarda la prima questione, secondo il giudice a quo le norme impugnate, che sanzionavano penalmente ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni, senza escludere il caso in cui la condotta del medico sia finalizzata ad evitare l’impianto di embrioni affetti da malattie genetiche, erano in contrasto con gli articolo 2, 3, 32, 117 della Costituzione Italiana. La Consulta ha dichiarato fondata la questione di legittimità costituzionale e si è espressa in merito.

La seconda questione, invece, è stata dichiarata infondata eliminando ogni dubbio sul divieto di soppressioni di embrioni frutto della fecondazione assistita.

La sentenza del Giudice delle leggi può essere definita storica sotto due distinti profili: il primo attiene all’introduzione nell’ordinamento italiano di una forma indiretta di eugenetica, il secondo riguarda una importante presa di posizione riguardo allo statuto dell’embrione umano e della sua qualificazione dal punto di vista legislativo.

LA DERIVA EUGENETICA. – L’eugenetica (dal greco eu, “bene, buono” e genos, “stirpe, razza” quindi “di buona razza”), detta anche eugenica, è una disciplina che ha come obiettivo quello di migliorare la razza umana nobilitandone le qualità innate scartando tutte le possibilità genetiche che ne possono arrecare danno. Quanto appena detto non si discosta molto dallo scenario descritto nella sentenza n. 229/2015 della Corte Costituzionale: la scelta di impiantare embrioni sani piuttosto che quelli malati risponde a una logica disumana dove esistono vite di seria A geneticamente perfette e vite di serie B non meritevoli di essere vissute. Spiace costatare che comunque la prassi dei centri italiani che pongono in essere la fecondazione medicalmente assistita già da tempo operava questa accurata selezione.

Da un punto di vista più strettamente giuridico, da quanto emerge dal testo della sentenza, si iniziano a creare indirettamente i presupposti per un diritto al figlio sano, con il relativo problema di indicare i limiti entro cui un individuo può dirsi sano o meno. Anche il lettore non esperto di diritto rileva facilmente come tale identificazione può aprire scenari molto discriminatori: ciò che è ritenuto un problema da una coppia di genitori può non esserlo per altri e viceversa. La decisione della Corte Costituzionale non è del tutto nuova sotto il profilo giuridico: infatti, già nel 2012, nella Sentenza del caso Costa e Pavan contro Italia, la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva affermato che il diritto al rispetto della vita privata e familiare, disciplinato all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, includesse il desiderio della coppia di generare un figlio non affetto da malattie genetiche.

Insomma, se i presupposti della decisione della Consulta muovevano dalla tutela del diritto alla salute della coppia generatrice alla fine si è andato a comprimere ancora una volta il diritto alla vita del concepito.

L’EMBRIONE: UNO DI NOI. – Per quanto nilssonfamousriguarda la dichiarazione di infondatezza della seconda questione di legittimità costituzionale, la Consulta, oltre a ribadire il divieto di soppressione degli embrioni, precisa alcuni principi attinenti allo statuto giuridico dell’embrione umano che gettano un seme di speranza quanto alla tutela dello stesso.

«L’embrione […] non è certamente riconducibile a mero materiale biologico». Quanto riportato dalla Consulta non è una semplice constatazione scientifica, bensì è un riconoscimento – seppur molto timido – della soggettività dell’embrione. Va ricordato che uno dei fini principali della L.40, contenuto non a caso nell’art. 1, è la tutela dei diritti di tutti i soggetti coinvolti nelle pratiche di fecondazione medicalmente assistita, compreso il concepito. In tal senso, deve ricordarsi quanto affermato dalla stessa Corte Costituzionale in una non lontana sentenza del 1975, la n. 27, in cui venne ribadito il fondamento costituzionale della tutela del concepito al quale sono riconosciuti i diritti inviolabili dell’uomo.

Proprio la sentenza 27/1975 segnò profondamente la giurisprudenza costituzionale in materia: in quell’occasione venne sancito un principio inappellabile secondo cui in un’eventuale collisione tra diritti di rango costituzionale quelli del concepito potevano essere compressi perché «persona deve ancora diventare».

Quanto deciso nel 1975 torna attuale: infatti, proprio in virtù di questo principio, nella sentenza 229/2015 viene concesso un «affievolimento» dei diritti dell’embrione che, però, non giustifica in alcun modo la sua soppressione, ma soltanto la crioconservazione.

LA CRITICA. – Sebbene la sentenza della Consulta sia inappellabile e deve essere rispettata sotto il profilo della legalità sostanziale, sono necessarie due brevi considerazioni.

In primo luogo, la Corte ha sempre lasciato un margine di manovra al legislatore nell’applicazione dei principi da essa enunciati. È auspicabile che quanto sarà deciso in futuro tenga conto dell’interesse del nascituro, il soggetto più debole; e che qualora si presentino contrasti tra i diritti dell’embrione e quelli dell’adulto ogni scelta sia orientata verso una considerazione preminente dei primi: una soluzione perfettamente in linea con l’art. 3 della Convenzione ONU sui diritti del bambino, resa esecutiva in Italia dal 1991 con la l. n.176.

In secondo luogo, non sono le condizioni di vita a qualificare l’essere umano ma la sua stessa ontologia, il suo essere unico e irripetibile: per questo è da rifiutare con forza e coraggio ogni azione eugenetica. In tal senso, vale la pena ricordare un parere del Comitato Nazionale di Bioetica pubblicato nel 2003 in cui viene ribadito che «gli embrioni umani sono vite a pieno titolo» e che «esiste quindi il dovere morale di sempre rispettarli e sempre proteggerli nel loro diritto alla vita, indipendentemente dalle modalità con cui siano stati procreati e indipendentemente dal fatto che alcuni di essi possano essere qualificati – con un’espressione discutibile, perché priva di valenza ontologica – soprannumerari».

Insomma, è veramente “uno di noi”.

Massimo Magliocchetti

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Copertina “La Voce della Vita”- Dicembre 2015

Edizione Dicembre 2015

4- Rivista Cav- Copertina Dicembre 2015

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“Uscite d’emergenza”: spettacolo di danza contemporanea

Invitiamo i nostri lettori e tutti gli amici del Cav Roma Talenti ad uno spettacolo di danza contemporanea parte del  cui ricavato sarà devoluto al Cav Roma Talenti.
Di seguito la locandina dell’evento:

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Si ringrazia la compagnia “uscite d’emergenza” e il coreografo Davide Romeo

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La vita come problema: il contollo delle nascite

( Ed. Novembre 2015 – “La Voce della Vita”)

Accanto ai vari sintomi di un’apocalisse imminente, come la guerra in Medio Oriente, il cambiamento climatico e l’immigrazione, non può mancare il problema della sovrappopolazione.

I paesi ad oggi più popolati , Cina e India, hanno tentato di porre rimedio all’eccessiva crescita demografica applicando politiche spesso disumane e dall’esito discutibile.

La Cina ha introdotto la politica del figlio unico punendo duramente, con multe pesanti e talvolta con il carcere, le famiglie che non si omologavano . Molte donne sono state costrette ad abortire e numerosi bambini sono “spariti”. Ciò ha provocato un notevole invecchiamento della popolazione e la diminuzione del sesso femminile, più “sacrificabile” nella cultura cinese che predilige i primogeniti maschi.

In India sono state operate delle sterilizzazioni di massa in alcune zone, che hanno avuto per oggetto gli strati più poveri della popolazione, in particolare le donne, molte delle quali hanno trovato la morte per maldestre operazioni. Tuttavia il problema della sovrappopolazione può essere considerato in parte un’allucinazione mediatica: viene esasperato un oramai risaputo “affollamento planetario” mentre passano in secondo piano le responsabilità dei governi riguardo la distribuzione delle risorse e lo sfruttamento impazzito delle stesse, fondamento di una società dedita allo spreco produttrice di povertà.

Proprio nel momento in cui emerge uno stato di scarsità, di necessità, una massa sconfinata di persone invisibile diventa, all’improvviso, visibile. Una massa sconfinata invisibile diventa all’improvviso visibile, la massa dei poveri è un mondo che per rimediare ad un sistema economico inumano risponde con rimedi altrettanto inumani, non cerca la via ragionevole. Una soluzione semplice a questo problema non esiste, tuttavia appare necessario, prima di imporre un sistematico quanto forzato decremento demografico, un ripensamento dell’economia, a cominciare dall’utilizzo responsabile delle risorse e dalla consapevolezza che esiste ancora posto per le persone, meno per gli sprechi e per gli abusi.

Mattia Patriarca

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“E’ in te”: Nek canta la cultura della vita

(Ed. Novembre 2015 – “La Voce della VIta”)

“Lui vive in te, si muove in te, con mani cucciole. È in te, respira in te, gioca e non sa che tu vuoi buttarlo via”. Così il cantante Filippo Neviani, in arte Nek, scrive un inno alla vita.

In te è una canzone che tratta il tema dell’aborto, attraverso la figura del padre, molto spesso ignorata o messa da parte.

In un’epoca dove domina il tema del trasgressivo, sono pochi i cantanti che scrivono canzoni in difesa dei cosiddetti principi non negoziabili come la vita, la famiglia e la libertà di educazione. Nek ha raggiunto oramai una fama internazionale, rimanendo allo stesso momento sempre se stesso e rivendicando quelli che per lui sono principi fondamentali, come ad esempio la fede cattolica ed il suo pensiero sul tema della vita.

La canzone è nata dalla vicenda del suo paroliere quando era ragazzo, una vicenda che lo fece soffrire molto, poiché voleva tenere il bambino mentre la compagna decise di abortire, ma che gli diede la forza, insieme a Nek, di scrivere una canzone d’impatto, che potesse arrivare dritta al cuore del pubblico.

Nel 1993, anno in cui esordì con questa canzone al Festival di Sanremo, Nek ricevette numerose critiche anche molto pesanti, in quanto i giornalisti e il mondo artistico non potevano accettare un suo “schieramento” di fronte a un tema come questo, accusandolo per il fatto che “la sua musica era troppo orecchiabile e poco d’elite” (“Avvenire”, 22/09/2015). L’autore tuttavia è rimasto fermo sulle sue convinzioni, accettando le critiche e senza mai indignarsi pubblicamente, così da conquistare la gente allo stesso modo.

Al giorno d’oggi si pensa che la difesa della vita sia esclusivamente riservata a chi ha fede, ma Nek smentisce affermando, in un’intervista sul “Notiziario Pro-Vita”, che “difendere e preservare la vita è un fatto riservato a tutti, nessuno escluso, e al di là della fede” (Notizie Pro-Vita, Settembre 2013), poiché chiunque ama veramente non può non difenderla.

Questa canzone esprime la vera forza di un padre nel difendere la vita del proprio figlio, descrivendo come egli sia disposto a sacrificarsi e quanto amore può donargli. E’ una canzone che entra nel cuore e insegna che la vita è il bene più prezioso che ci è stato donato.

Lorenzo Illiano

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Iniziative del MPV da vicino: il Progetto Gemma

In questo numero approfondiamo l’iniziativa del Progetto Gemma, che da oltre vent’anni aiuta le mamme italiane a portare avanti la loro gravidanza.

(ed. Novembre 2015 – “La Voce della Vita”)

“Gemma”: una parola nota a tutti, sinonimo di pietra rara o preziosa. Eppure le gemme di cui vogliamo parlare in questo numero, e che impongono il nome a questo progetto, vanno ben oltre il valore di un semplice minerale: si tratta di gemme di Vita. Il nome evocativo di questa iniziativa si riferisce proprio ai bambini tenuti in grembo dalle proprie madri, in particolare tutti quelli che non hanno la sicurezza di nascere a causa dei disagi in cui spesso la mamma si può trovare.

“Progetto Gemma” nasce nel 1994 ponendosi come scopo quello di aiutare queste mamme, sostenendole in maniera pratica nell’affrontare la gravidanza. “Adotta una mamma, salvi il suo bambino”: è proprio questo lo slogan dell’iniziativa, che consiste nel dare un sostegno economico alle tante mamme in difficoltà. Attraverso questo servizio, con un contributo minimo mensile di 160 euro, si può adottare per 18 mesi (gli ultimi 6 di gravidanza e i primi 12 dopo la nascita) una mamma e il suo bambino. Chiunque può adottare: singoli, famiglie, gruppi parrocchiali, di amici o di colleghi, comunità religiose, condomini e classi scolastiche. Perfino Consigli comunali e gruppi di carcerati hanno aderito al Progetto. Partecipare è molto semplice, basta realizzare le suddette donazioni mensili sul conto corrente del Progetto, ricordando che tutto ciò che si dona è anche deducibile ai fini fiscali.

Il progetto è gestito interamente dalla fondazione “Vita Nova onlus”, che dagli anni Ottanta dona sostegno concreto a molte delle iniziative del Movimento per la Vita Italiano.

Insomma, da oggi anche tu sei invitato a donare questo “doppio sorriso” a una di queste mamme: aiuterai non solo loro, ma anche la “Gemma” che portano in grembo.

Giacomo Paradisi

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Pena di morte: il caso dell’Arabia Saudita

Considerata bastione della stabilità in Medio Oriente, potenza regionale grazie alle sue risorse petrolifere e campione dell’islam sunnita, l’Arabia Saudita ammette la pena di morte, anche per decapitazione, e la applica in numerosi casi.

(Ed. Novembre 2015 – “La Voce della Vita”)

In Medio Oriente siamo costantemente colpiti dagli orrori commessi dai terroristi di matrice islamica nei diversi Paesi, primi fra tutti in Iraq e Siria, a causa della presenza dell’ormai famigerato ISIS, o sedicente Stato Islamico. Eppure, c’è un Paese nell’area che non ha nulla da invidiare a questi gruppi in quanto ad esecuzioni pubbliche di detenuti: l’Arabia Saudita. Potenza regionale e campione del sunnismo nel mondo musulmano (ospita al suo interno le città più sacre per l’Islam, ossia La Mecca e Medina), questo Stato è considerato un fattore stabilizzante nell’area e un alleato dell’Occidente. La sua importanza deriva soprattutto dalle immense riserve petrolifere presenti sul suo territorio e nei mari che lo circondano, facendone il primo produttore al mondo di questa risorsa energetica. L’Arabia Saudita possiede una legislazione molto radicale, basata su un’interpretazione restrittiva della legge islamica Shari’ah, e ammette la pena capitale.

Nelle ultime settimane, la questione è stata riportata all’attenzione dell’opinione pubblica dal caso del giovane Ali Mohammed Al-Nimir, un ragazzo che nel 2012 è stato arrestato con l’accusa di aver partecipato a una protesta anti-governativa dichiarata illegale e di detenzione di armi da fuoco. Al-Nimir è stato condannato a morte dopo aver confessato – secondo alcune fonti arabe dopo numerose torture – i reati imputatigli.

Le autorità giurisdizionali saudite possono impartire la pena di morte in base a tre categorie criminali presenti nella Shari’ah: Hudud (crimini previsti direttamente dal Corano), Qisas (il famoso “occhio per occhio”) e Tazir (una categoria più generale di crimini). Gli elementi per essere condannati sono del tutto peculiari, ossia: una confessione non estorta (teoricamente, visto le pratiche di tortura utilizzate negli interrogatori), la testimonianza di due uomini adulti (tranne che per gli Hudud, per i quali serve anche la confessione) e il rifiuto di prestare giuramento. Tra i reati per cui è comminabile la pena di morte ci sono – oltre ad alcuni “classici” come l’omicidio, il terrorismo, lo stupro e la rapina a mano armata – il furto, la blasfemia, la stregoneria, lo spaccio di droga, l’adulterio, l’apostasia (ovvero rinnegare l’Islam), l’idolatria, la fornicazione (rapporti sessuali pre-matrimoniali), il tradimento e la sedizione. La pena può essere eseguita tramite impiccagione, fucilazione, lapidazione e decapitazione. Quest’ultima è la più utilizzata delle quattro e viene seguita, a volte, dalla crocifissione del corpo decapitato per alcuni giorni.

Secondo i dati del Dipartimento di Stato statunitense, tra il 2007 e il 2010 sono avvenute circa 345 decapitazioni mentre per Amnesty International almeno 79 nel solo 2013. L’ultima esecuzione per decapitazione accertata risale all’agosto 2014. Le condanne alla pena capitale sono eseguite pubblicamente e senza preavviso al condannato.

Una nota finale amara: l’Arabia Saudita è stata eletta alla Presidenza del comitato del Consiglio per i Diritti Umani dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, organo che sovrintende alla nomina di esperti indipendenti i quali analizzano le eventuali violazioni da parte dei Paesi membri.

Emiliano Battisti

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Il panico del giorno dopo: Norlevo

(Ed. Novembre 2015 – “La Voce della Vita”)

“Ieri ho avuto un rapporto non protetto con G., ora che faccio? E se fossi rimasta incinta? Come posso fare, che dico ai miei genitori?, sono senza lavoro, devo finire scuola… aiutami, che posso fare?”

“Tranquilla, è facile, prendi la pillola del giorno dopo, con quella stai sicura che non ti può succedere nulla!”

Molte volte capita di sentire discorsi di questo tipo e tra ragazze sempre più giovani. il problema principale è: si conosce realmente l’effetto della pillola del giorno dopo?

In Italia vengono vendute mezzo milione di confezioni (tra Norlevo e Levonogel), quasi tutte prescritte negli ospedali durante i turni della domenica mattina a seguito delle “pazzie” del sabato sera da rapporti non protetti, spesso in discoteca in condizioni di ubriachezza con sconosciuti.

E’ definito da tutti un “contraccettivo d’emergenza”, sebbene sullo stesso bugiardino leggiamo che il prodotto agisce “bloccando l’ovulazione o impedendo l’impianto dell’ovulo eventualmente fecondato”. Dunque questa pillola ha potenzialmente un doppio effetto: contraccettivo e abortivo.

O meglio, gli effetti reali di questa pillola possono essere tre. I primi due consistono nella limitazione degli spermatozoi e nell’inibizione dell’ovulazione.   Si tratta di due effetti propriamente contraccettivi e in tal caso l’uso della pillola è “inutile”, in quanto se viene assunta dopo l’incontro i due processi sono, nella gran maggioranza dei casi, già superati. Il terzo effetto è di modificare l’endometrio, il tessuto interno all’utero, in modo da renderlo non favorevole all’annidamento e all’accoglienza dell’embrione, cioè di colui che è bambino fin dal concepimento. Di conseguenza quel giovanissimo bambino viene espulso, abortito, senza che la donna lo avverta.

Si può dunque parlare di un aborto invisibile. Spesso si ha la sensazione di non averlo fatto, e questo “non vedere” e “non sentire” facilita la diffusione dell’idea, tanto gradita alle case farmaceutiche produttrici, che si tratti di prodotti non abortivi. Di conseguenza non c’è preoccupazione o scrupolo morale: basta mandare giù una pillolina. E poi lo dicono tutti che non fa niente! Sfortunatamente la realtà è diversa. Uno studio dell’AIGOC, l’Associazione dei ginecologi ostetrici cattolici (Arisi e Micheli), riporta numeri drammatici: anche volendosi limitare al Norlevo (370mila confezioni vendute per anno) e calcolando prudenzialmente un 20% di casi in cui sia avvenuta la fecondazione, 74mila bambini concepiti incappano nella “barriera” abortiva. Di questi bambini, 4070 si salvano a causa del fallimento della pillola, ma altri 69.930 vengono semplicemente abortiti.

Il fatto che siano ignorati o misconosciuti non li rende meno immorali e diversi dagli aborti clandestini. Come quelli delle mammane o dei medici senza scrupoli, avvengono fuori dalla regolamentazione della legge 194 e non passano per gli “obbligatori” passaggi medici e burocratici che, sia pure in larga parte solo sulla carta, garantiscono un filtro e una presa di consapevolezza della donna. E dell’intera società.

Chiara Nardi

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Ru486: l’aborto farmacologico

(Ed. Novembre “La Voce della Vita”)

L’aborto farmacologico è un’opzione non chirurgica per le donne che vogliono interrompere la gravidanza entro la settima settimana nel rispetto della Legge 194 che disciplina l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) nel nostro Paese. Il 30 luglio 2009 l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha approvato l’immissione in commercio della RU486, nota come pillola abortiva (da non confondere con la pillola del giorno dopo).

Per usufruirne bisogna rivolgersi al medico e, se sussistono le condizioni previste dalla legge 194, ci si dovrà sottoporre a un’ecografia ginecologica e a una visita di controllo che accerti che la gravidanza sia inferiore ai 49 giorni. Trascorsi sette giorni di riflessione (a meno che non sussistano gravi motivi di urgenza) è possibile presentarsi in ospedale per effettuare il trattamento.

L’aborto farmacologico, a differenza dell’aborto chirurgico, lascia alla donna la sensazione di procedura responsabilizzazione e coinvolgimento .
In un primo momento fu consentito solo tramite ricovero di tre giorni in ospedale. In seguito per diversi motivi è stato permesso anche in day hospital.

Come funziona?

E’ bene sapere che la gravidanza inizia quando l’ovulo fecondato aderisce alla mucosa dell’utero materno circa una settimana dopo il concepimento e viene favorita da uno specifico ormone chiamato progesterone il quale ha il compito di:

  1. Creare un ambiente favorevole allo sviluppo dell’ovulo fecondato, rendendo biologicamente accoglientela mucosa che riveste lo strato interno dell’utero (endometrio.)
  2. mantenere rilassata la muscolatura dell’utero (miometrio) durante la gravidanza.
  3. potenziarei vasi sanguigni deputati a nutrire l’utero e l’embrione.

Il trattamento farmacologico per l’IVG consiste nella somministrazione di due diversi tipi di compresse:

la prima è la RU486 a base di mifepristone, il quale impedisce le azioni tipiche che il progesterone svolge all’inizio della gestazione e s’ingerisce per via orale.

La seconda è a base di prostaglandina (misoprostol) che, assunta per via orale o vaginale 24-48 ore dopo (se non si è verificata già l’espulsione della mucosa e dell’embrione), stimola ulteriormente le contrazioni uterine. Tutto ciò arresta la crescita del sacco embrionale, ne determina il distacco “a stampo” (sacco amniotico, embrione, liquido amniotico, placenta) dalla parete dell’utero e la successiva espulsione mediante sanguinamento e contrazioni. L’embrione espulso misura circa un centimetro e non è distinguibile dal sangue mestruale. La completa espulsione del sacco embrionale viene verificata con un’ecografia 14 giorni dopo il trattamento. Rispetto ai metodi tradizionali l’aborto con la Ru486 non richiede anestesia e, se usata correttamente, funziona nel 95% dei casi. Nel caso in cui l’espulsione del sacco embrionale non sia avvenuta completamente è necessario completare l’asportazione con un intervento chirurgico di raschiamento. Non mancano alcuni effetti collaterali legati principalmente all’utilizzo delle prostaglandine, quali il dolore di tipo crampiforme che può variare da forte variabile fino a raggiungere picchi molto intensi e aumenta in prossimità dell’espulsione, quindi nausea e vomito, e infine sanguinamento, con perdite ematiche massime al momento dell’espulsione, che persistono per almeno una settimana o anche più a lungo.

E’ importante sapere che, qualora la donna decidesse di proseguire la gravidanza dopo l’assunzione, non andata a buon fine, del primo farmaco (mifepristone) il rischio di malformazione non aumenterebbe in alcun modo. Se intendesse proseguire, a seguito di un’ulteriore mancata efficacia, dopo l’assunzione del misoprostol (secondo farmaco), subentrerebbero rischi di malformazioni e malattie congenite.

Arianna Traini

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L’assoluzione dal peccato di aborto: tra misericordia e verità

Papa Francesco concede ai sacerdoti di assolvere dal peccato d’aborto
durante il Giubileo straordinario della Misericordia

(ed. Novembre 2015 – “La Voce della Vita”)

Un gesto consapevole.- Il Santo Padre Francesco, il 1 settembre scorso, ha inviato una lunga lettera a S. Ecc. Mons. Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione e referente principale dell’Anno Giubilare, nella quale rilevava che «uno dei gravi problemi del nostro tempo è certamente il modificato rapporto con la vita». Nella missiva denunciava che «una mentalità molto diffusa ha ormai fatto perdere la dovuta sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita». Francesco riconosce che «il dramma dell’aborto è vissuto da alcuni con una consapevolezza superficiale, quasi non rendendosi conto del gravissimo male che un simile atto comporta. Molti altri, invece, pur vivendo questo momento come una sconfitta, ritengono di non avere altra strada da percorrere». Per questi motivi ha deciso di «concedere a tutti i sacerdoti per l’Anno Giubilare la facoltà di assolvere dal peccato di aborto quanti lo hanno procurato e pentiti di cuore ne chiedono il perdono».

            Un gesto straordinario.- La decisione presa da Francesco può essere definita straordinaria sotto due punti di vista: quello strettamente canonico e quello puramente teologico.

            In primo luogo, dal punto di vista canonico, la decisione papale si configura come straordinaria, nel senso di fuori dall’ordinario. Infatti, di norma, l’assoluzione per il peccato d’aborto, poiché è sanzionato con la scomunica c.d. latæ sententiæ, è riservata ordinariamente al Vescovo diocesano oppure al Canonico penitenziere in quanto è ritenuto un delitto contro la vita e la libertà umana. In virtù dell’Anno Giubilare, essendo questo un tempo forte per la Chiesa, viene concessa straordinariamente questa facoltà a tutti i sacerdoti che devono prepararsi a questo grande compito al fine di indicare «un percorso di conversione autentica per giungere a cogliere il vero e generoso perdono del Padre che tutto rinnova con la sua presenza».

            Il secondo aspetto, puramente teologico, attiene invece all’importanza del gesto sia per il confessore che per il pentito. Per quanto riguarda il confessore, il Papa ricorda come i sacerdoti debbano saper «coniugare parole di genuina accoglienza con una riflessione che aiuti a comprendere il peccato commesso». Il pentito, invece, accostandosi con cuore sincero al Sacramento della Confessione, ottenendo la riconciliazione con il Padre, ritorna a pieno titolo a far parte della comunità ecclesiale.

Misericordia, perdono e Verità.- La misericordia più grande è avere il coraggio di dire la verità con amore. L’accoglienza e il perdono non possono non invitare il fedele all’elaborazione del peccato commesso, al fine di ridare speranza e coraggio a chi vive il dramma dell’aborto. La decisione del Papa è quindi un forte invito a riflettere, durante l’anno Giubilare, sul valore della vita e sulle dolorose conseguenze morali ed esistenziali del gesto abortivo.

Massimo Magliocchetti

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Copertina “La Voce della Vita” – Novembre 2015

Edizione Novembre 2015

3- Rivista Cav- Copertina Novembre 2015

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